Infrastrutture critiche: nuovi paradigmi per la gestione dei rischi d’impresa – I contributi

Il 20 aprile 2021 si è svolta la tavola rotonda “Infrastrutture critiche: nuovi paradigmi per la gestione dei rischi d’impresa” organizzata da Citel con il patrocinio di AIPSA – Associazione Italiana Professionisti Security Aziendale.

L’evento ha ottenuto un grande successo, confermando che quando professionisti preparati ed esperti si confrontano su argomenti cruciali per la crescita aziendale, si riescono sempre ad approfondire nuovi aspetti e interessanti opportunità.

Nel corso del meeting gli ospiti hanno affrontato a 360° i temi relativi al cambiamento in atto nei modelli organizzativi delle aziende, in particolare nelle grandi organizzazioni del comparto strategico italiano: si è parlato dell’importanza della security nella creazione di valore, di spinta evolutiva della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, di cultura Risk Based e approccio dinamico al rischio, di investimenti e successo sostenibile dell’azienda, di cambiamento come opportunità di maturare idee.

Riportiamo qui per completezza le domande poste da Andrea Bignami, Caporedattore della redazione economica di Sky TG24, e gli interventi integrali dei partecipanti.


Anche prima del Covid stava emergendo l’esigenza di una maggiore sostenibilità dei modelli di business. Come devono esser considerati rischi e opportunità nei diversi scenari evolutivi?

PATRIZIA GIANGUALANO
Membro CDA di Leonardo, Mondadori, SEA, ASTM, membro del comitato scientifico della Business School Il Sole 24ORE e coautrice del libro “Sostenibilità in Cerca di Imprese”.

Il tema della revisione dei modelli di business a fronte di una trasformazione molto importante che riguardava e che riguarda ancora adesso il tema ambientale è molto significativo. Certo è che la pandemia ha accelerato questo processo e adesso ci troviamo veramente in una profonda trasformazione, nella quale le aziende stanno cercando di capire quali sono i driver del cambiamento. Questo è un fatto molto importante da comprendere per impostare una corretta pianificazione strategica, che deve necessariamente tener conto dei rischi e delle opportunità nei diversi scenari evolutivi. Credo proprio che in questo periodo abbiamo imparato tutti a lavorare per scenari: per esempio se noi ci riferiamo al climate change, gli effetti di questi cambiamenti possono essere capiti, come diversi operatori del settore ci insegnano, attraverso la costruzione di storie su come il clima potrebbe evolvere in futuro. Queste storie sono in sostanza degli scenari climatici che si basano su una serie di percorsi economici e sociali, e delle evoluzioni legate ai possibili sviluppi del sistema energetico.
Questo significa che nella nostra pianificazione per il futuro dobbiamo anche cercare di capire quali di questi scenari è maggiormente percorribile, andando a definire una strategia.

Si parla ad esempio di sostenibilità con un percorso di crescita verde, con un percorso intermedio, con un percorso accidentato, con un percorso divisivo, ecc. In questo momento il tema rilevante per l’Europa e per le aziende è la riduzione delle emissioni, e l’accordo di Parigi ci ha dato ovviamente un’indicazione per i cambiamenti che dobbiamo attuare nei nostri modelli di sviluppo; quindi diventa molto importante capire se il percorso da seguire a riguardo dovrà più o meno “sostenuto”.
Come si fa a definire una corretta pianificazione strategica?
Dobbiamo pensare ovviamente di massimizzare il valore sostenibile, dobbiamo lavorare al successo sostenibile dell’azienda e alla massimizzazione del suo valore, tenendo conto di diversi interlocutori: non possiamo guardare solo al nostro interno, ma dobbiamo cominciare a confrontarci con gli stakeholder su temi materiali che comunque siano coerenti con quella che è la nostra missione, con il nostro “core value”, e che comunque comincino ad identificare uno scopo che guardi lontano.


Gli operatori di servizi essenziali sono spesso aziende private, oggi però all’interno di queste aziende, i costi che sono assolutamente necessari per costruire la sicurezza e la resilienza, vengono poi riconosciuti come parte della Mission della società?

FEDERICO D’ANDREA
Presidente di AMSA, membro del CDA di A2A, presidente organismo di vigilanza Banco BPM.

I costi della sicurezza e della gestione dei rischi in generale oscillano sempre tra essere considerati semplici costi o investimenti: questo è un tema di straordinaria rilevanza e propendere per un lato o per l’altro dà la cifra della cultura di un’azienda.
Quando noi parliamo in convegni come questo, troviamo solitamente un perfetto accordo sulla cosiddetta compliance culture, ma ben diverso è poi importare questo concetto nella realtà aziendale, dove ancora sono presenti forti divaricazioni di pensiero.
Per questo è fondamentale l’impostazione iniziale, perché se noi non decidiamo a monte la strada da intraprendere, poi le conseguenze potrebbero essere fuorvianti.

Se non rispondiamo come prima cosa in modo concreto alla domanda “costo o investimento” tutto ciò che ne consegue non ci darà mai la visione reale della struttura dell’azienda che dobbiamo analizzare e tutelare.
Il sistema delle aziende deve fare un salto di qualità non banale.
Nel settore dei servizi pubblici, ad esempio, abbiamo la coesistenza di aziende pubbliche e private, ma queste due tipologie fanno mercato insieme o rispondono a logiche differenti? Da questo punto di vista, se vogliamo essere protagonisti di uno scenario di evoluzione del mercato, dobbiamo mettere da parte il vecchio concetto in base al quale l’unico scopo dell’azienda è la massimizzazione dei profitti, in particolare nel breve periodo.
Il tema del controllo interno dell’azienda, sia essa pubblica o privata, “in house” o mista, multiutility o di scopo, non può essere un “incidente di percorso”: o viene considerato parte integrante del business o davvero rischiamo di diventare vittime di pensieri aziendali senza una visione e completamente disallineati dalla realtà.


Parlando di imprese strategiche, in un contesto economico sempre più interconnesso, aziende come Snam sono più coinvolte di altre su scala nazionale nell’assumersi delle responsabilità, in quanto dalla loro sicurezza dipende la sicurezza di altre aziende.
Il modello di gestione del rischio che avete adottato dal punto di vista della sicurezza fisica e informatica, quanto è condizionato dallo scenario che stiamo vivendo?

ANDREA CHITTARO
Senior Vice President Global Security & Cyber Defence Department Snam – Chairman of the Board AIPSA.

Riguardo al contributo che la sicurezza può portare alla catena generale di creazione del valore, noi siamo partiti dalla gestione dei rischi operativi, ma che hanno un riverbero strategico a livello di enterprise management.
Siamo partiti da un modello organizzativo integrato fortemente voluto dai vertici aziendali, in cui abbiamo scelto di costituire una direzione che si occupasse in toto della sicurezza e avesse la capacità di guardare i rischi a 360°.

Insieme a una serie di altre iniziative, ciò ha creato una consapevolezza più marcata del valore che questa gestione era in grado di creare all’interno della mission generale di un’azienda come Snam che opera nelle logiche di mercato, ma che è anche un grande operatore di infrastrutture critiche e strategiche per il Paese, e che deve avere al centro delle sue attività di gestione dei rischi e di protezione aziendale, la consapevolezza che da un problema sulla nostra rete può derivare un problema per il sistema Paese.
Qui entra in campo anche la capacità di chi è chiamato a gestire la questione: le scelte di alcune aziende in tema sicurezza non sempre sono adeguate, e per questo è importante spendere bene, più che spendere tanto.
Oggi le grandi infrastrutture italiane sono principalmente gestite da soggetti privati, e non possiamo disconoscerne il contributo: nell’interesse di tutti, la chiave è quella della collaborazione e del confronto tra pubblico e privato attraverso ruoli attivi distinti e ben riconosciuti.


Le imprese oggi sono sempre più “immerse” in un mondo digitale. La digitalizzazione è sempre un vantaggio o in alcune occasioni può essere uno svantaggio parlando di gestione della sicurezza?

NILS FAZZINI
CEO Citel SpA, società italiana leader nei processi di Digital Transformation applicati alla security aziendale.

Prima di tutto bisogna comprendere come la digitalizzazione sia legata al mondo della security. La Digital Transformation è un processo evolutivo che nasce dal mondo dell’informatica per poi estendersi a tutti i livelli di un’organizzazione e va da sé che anche i processi gestione della security sono stati coinvolti, soprattutto con l’affermarsi di tecnologie IP based e con la cyber security.
A parte le questioni tecniche, l’aspetto affascinante di tutto ciò sta nella spinta evolutiva di questa rivoluzione, che ha portato un cambiamento in tantissimi settori: ha dato nuova linfa vitale a molti mercati e ha valorizzato professionisti un tempo magari sottostimati, come i Security Manager, che oggi diventano invece i protagonisti del cambiamento, visto non come un passaggio tecnologico ma come un cambio di paradigma. Un nuovo modo di vedere il proprio lavoro e il mondo che ci circonda; un contesto lavorativo che si interconnette con i responsabili delle diverse aree di un’impresa, che hanno in comune la protezione dell’azienda da differenti minacce o pericoli. Nel campo della sicurezza fisica o digitale, si sperimentano nuovi approcci e nuove tecnologie con tempi accelerati, perché il mondo di oggi muta rapidamente e con esso anche chi è preposto alla difesa dei valori aziendali.

Chi come me si occupa di assistere e contribuire a questo cambio di paradigma nelle grandi control room security di aziende strategiche e di rilevanza nazionale, vede il cambiamento come l’opportunità di sperimentare soluzioni e maturare nuove idee, e tutto ciò è molto stimolante. Sicuramente il processo andrà avanti per molto tempo ancora.
Basti pensare che ancora oggi molte aziende, soprattutto PMI, che rappresentano il grosso del tessuto economico del Paese, sono ancora alle prese con i processi di digitalizzazione, e i recenti stimoli economici volti a incentivare questi progetti di sviluppo sono perciò fondamentali, come strumento di innovazione ma soprattutto come booster per la competitività.

Tra i principali benefici aziendali legati questi processi evolutivi non c’è solo un risparmio in termini di risorse grazie all’efficientamento dei processi di tutela dell’azienda, ma anche il fatto di rappresentare un incentivo a una maggiore collaborazione dipartimentale, che porta a sviluppare un valore intrinseco all’impresa. Un asset riconoscibile anche agli occhi dei board, degli azionisti generali e degli stakeholder: un’organizzazione in grado di salvaguardare la resilienza e la business continuity dalle differenti minacce che si possono contrapporre, rappresenta una garanzia per tutti i portatori di interessi e, nel caso di infrastrutture critiche, anche un baluardo per il sistema Paese.


Una cosa che il Covid-19 ci ha sicuramente ricordato è che le minacce più pericolose molto spesso sono quelle meno visibili che arrivano senza che ce le aspettiamo… quanto quest’affermazione che riguarda la vita di tutti noi si può applicare anche alla costruzione dei modelli di gestione del rischio in azienda?

FEDERICO D’ANDREA

Non c’è dubbio che il tema pandemia abbia sconvolto le dimensioni soggettive e il modo di approcciare il sistema dei rischi.
Quando parliamo di sistema di controllo interno di gestione dei rischi, solitamente valutiamo due momenti importanti: la probabilità di accadimento del rischio e la potenzialità dell’impatto del rischio stesso.
La filosofia del “non è importante spendere tanto ma è importante spendere bene” può rappresentare il fil rouge che collega tutto il sistema di controllo interno, che non deve essere ridondante ma calibrato sulla singola realtà aziendale: i costi in altre parole non devono superare i benefici per non rientrare nell’ambito di una spesa improduttiva.

Parlare di rischi non prevedibili in ambito aziendale è per certi versi una novità introdotta dalla pandemia, che ha inciso profondamente sulle modalità di lavoro. Ad esempio il tema dello smart working, incide non soltanto da un punto di vista di presenza fisica delle persone nelle aziende, ma fa emergere ancor di più la necessità di occuparsi di sicurezza.
Il continuo ricorso agli strumenti informatici a distanza porta necessariamente le aziende a doversi interrogare se i loro sistemi siano sicuri, perché le attività di carattere informatico ormai devono essere considerate come il loro core business.

È un rapporto “strano” in cui l’informatica di fatto è “servente” alle varie attività dell’azienda, ma senza l’informatica queste non funzionano.
Se si arresta il cuore informatico, la maggior parte delle imprese non riuscirebbero più ad operare sul mercato.
Da questo punto di vista noi dobbiamo fare i conti sempre di più con l’avanzamento del mercato che necessariamente porta a cambiamenti anche strutturali e organizzativi, e in questo scenario la security è solo una parte del sistema di controllo di un’azienda, in realtà molto più ampio.
Bisogna a tale proposito sottolineare che i controlli non connotati da sostanzialità evidenziano la colpa “organizzativa” dell’azienda, diventando pericolosi per la migliore gestione dei rischi prevedibili.


Per un’azienda che opera nell’ambito delle infrastrutture critiche quanto è possibile distinguere il confine tra la sicurezza aziendale e quella nazionale?

ANDREA CHITTARO

I limiti ovviamente sono dati dai ruoli; quanto poi alla sostanza e alla mission ci sono limiti molto meno netti.
L’importante è tenere sempre presente che i modelli devono essere efficaci e non solo formali, e in un mondo che sta diventando sempre più insicuro ciò vale ancora di più a livello strategico, anche su un piano molto ampio come può essere quello geopolitico, per le imprese strategiche per l’ecosistema economico nazionale che operano in Paesi particolarmente difficili.

In questo rapporto tra istituzioni e aziende non bisogna considerare solo il dato di mera compliance ma soprattutto quello di competitività.
Se l’impresa si mette a disposizione delle istituzioni, anche queste ultime dovrebbero fare altrettanto: ci sono Paesi ad esempio in cui lo Stato è un “agevolatore” delle aziende in contesti ad alto rischio.
L’Italia, anche sul fronte pubblico, ha professionalità eccellenti: perché non metterle a sistema di queste aziende per creare condizioni di sicurezza e competitività reciproca?


La gestione del rischio mediante le nuove tecnologie e tutti i problemi di cui abbiamo parlato, quanto potranno essere risolti attraverso l’impiego del l’intelligenza artificiale?

NILS FAZZINI

Confermando una tendenza generale all’accelerazione tecnologica, in certi settori l’intelligenza artificiale si propone già come valida soluzione per efficientare i processi, ridurre i tempi di produzione, gestione e organizzazione, dimostrandosi anche utile per offrire servizi di rete ai consumatori in periodo pandemico.
L’intelligenza artificiale rappresenta e sarà sempre più uno strumento utile in quasi tutti i settori industriali: produzione, logistica, servizi ecc. ma, come tutte le novità, bisogna sempre chiedersi se rappresenta veramente una soluzione nel contesto entro la quale si vuole adottare.
Il processo di identificazione dei rischi, le matrici di valutazione, i piani di risposta, le tecnologie utilizzate, sono tutti elementi che partono da processi cognitivi multidisciplinari che prendono in considerazione tantissime variabili, alcune di queste potremmo anche dire “discrete”, misurabili, rilevabili.
Qui però entra in gioco un processo che solo l’uomo sa attuare, cioè la capacità di sommare le informazioni alle percezioni, interagendo in questi processi decisionali.

Il “security man”, il risk manager, il responsabile dell’organo di controllo o della compliance rappresentano la funzione in grado di dare un “peso” alle variabili del complesso modello matematico che ci dirà come, dove e quando si possono manifestare delle vulnerabilità. Quando il complesso organismo che sorregge e gestisce un’azienda o un’istituzione sarà potenzialmente messo alla prova.
L’intelligenza artificiale viene utilizzata già oggi con le tecnologie di campo, con i sistemi centralizzati di governo e controllo della security, e ormai da tempo anche con le telecamere, poi a tutto questo si sono aggiunte soluzioni preposte al monitoraggio e alla rilevazione di informazioni e anomalie negli ambienti, ma anche nei sistemi informatici.
Questa enorme quantità dati vanno poi analizzati, contestualizzati e capiti, perciò conoscenza, consapevolezza e apertura mentale sono tre attitudini fondamentali che sicuramente devono essere presenti in tutte le figure chiamate al difficile ruolo di difensore di un’organizzazione e della sua sicurezza.

Basti pensare come negli ultimi anni siamo stati chiamati a progettare un numero sempre crescente di applicazioni dedicate alla gestione integrata dei dati, capaci quindi di costruire scenari dinamici sulla base di matrici causa-effetto, ponderate insieme ad algoritmi di machine learning. C’è tuttavia una domanda crescente anche di soluzioni in grado di condividere informazioni tra sistemi dipartimentali: in fondo la sicurezza è solo una parte di un complesso organismo che si occupa della tutela del business aziendale.
Quindi è importante non solo un’integrazione multidisciplinare tra professionalità chiamate a guardare a un unico obiettivo con specifiche competenze diverse, ma dal punto di vista dei sistemi informatici è altrettanto importante essere in grado di trattare questi dati e di poterli organizzare, distribuire e integrare all’interno dell’azienda.
È perciò evidente come l’uso dell’intelligenza artificiale sia fondamentale per rispondere in tempi brevi alle esigenze dei contesti nei quali ci si trova ad agire.


Nella capacità di individuare, valutare e gestire i rischi conta più l’efficacia e il buon funzionamento dei processi, oppure le capacità e le competenze dei singoli individui?

PATRIZIA GIANGUALANO

Io sono una persona che crede molto nei framework di riferimento perché un framework riesce a definire quali sono le componenti del controllo ma anche a definire correttamente ruoli e responsabilità. Una volta definito questo quadro ognuno potrà dare il proprio contributo nella messa a punto di un sistema di analisi dei rischi evoluto.
L’impresa prima di tutto è gestione del rischio, quindi il tema fondamentale è capire qual è il rischio che siamo in grado di gestire e qual è il rischio che vogliamo gestire.
Per gestire questi scenari sono in ogni caso indispensabili alcuni strumenti, ma oltre a questo bisogna anche essere capaci di mettere a mettere a punto dati storici da cui ricavare informazioni. Ormai non basta più mappare i rischi come abbiamo fatto per tanto tempo: adesso dobbiamo cercare di capire quella che è l’interazione fra i rischi.

Oggi si parla tantissimo di Dynamic Risk Assessment: consideriamo i principali rischi e cerchiamo di capire le correlazioni che esistono fra loro.
Il report del World Economic Forum, che gli scorsi anni evidenziava i rischi ambientali come i più importanti, aggiunge quest’anno i rischi della pandemia e quelli informatici collegati alla Cyber Security.
Ovviamente questi sono stati due argomenti che hanno pesato moltissimo, e serve capire come gli effetti siano sostanzialmente correlati: questo è un altro strumento importantissimo che deve essere deve essere definito all’interno delle aziende. Non solo mappare, ma comprendere le inter-relazioni tra i rischi, e soprattutto essere in grado di considerare il cosiddetto “appetito a rischio” e le relative risk tolerance, che devono essere coerenti con la capacità e con il profilo di rischio-rendimento sulla base della strategia definita strategia definita in base a degli scenari.

La valutazione dei rischi e dell’efficacia delle misure di prevenzione e gestione, qualifica lei stessa gli obiettivi strategici e contribuisce ad una più consapevole formulazione dei piani di sviluppo futuro.
Questo genere di informazioni devono essere correttamente descritte e facilmente gestibili e portate all’attenzione del board, così da metterlo nelle condizioni di definire quelli che sono i limiti.
La propensione al rischio deve essere poi declinata all’interno delle diverse unità di business; l’amministratore delegato di un’azienda è il responsabile della struttura del modello organizzativo di gestione dei rischi e quindi anche del framework che li deve gestire. Dovranno inoltre essere definiti ruoli e responsabilità che permettano di approvare il modello ma anche di monitorarlo in diversi momenti temporali, sempre tenendo conto delle aspettative dei vari stakeholder interni ed esterni.

Un vero e proprio processo di pianificazione strategica “risk based” che sulle analisi di scenario va a individuare le effettive opzioni strategiche, evidenziando i limiti e i rischi e facendo una sorta di programmazione di dettaglio degli obiettivi operativi.
Andando oltre alla pianificazione strategica, questi obiettivi hanno dei veri e propri KPI, che dovranno essere verificati rispetto a dei Key Risk indicator, in modo che nell’assegnazione degli obiettivi ogni persona sappia qual è il KPI di riferimento, ma tenga conto di una certa capacità di rischio.
Infine una grande capacità di monitoraggio della struttura, per vedere se le performance sono state raggiunte, tenendo conto anche dei KRI che erano stati definiti.
In questo momento esistono tanti framework di riferimento, soprattutto per le aziende quotate, utili per mettere a punto un meccanismo che impedisca all’organizzazione di portare avanti certi obiettivi senza necessariamente confrontarsi con un modello valutato dal board.

In questo ultimo periodo si è affermato un modello molto interessante che evolve dalla prospettiva dell’Enterprise Risk Management verso una spirale dove troviamo l’allineamento delle aziende all’obiettivo del successo sostenibile, con una grande attenzione ai fattori ESG (Environmental, Social and Governance), che costituiscono il presupposto alla diffusione e all’implementazione di una cultura evoluta del Risk Management.
Ogni persona in azienda deve avere la coscienza dell’obiettivo da portare avanti, ma anche del rischio da gestire: il sistema di gestione dei rischi non è fatto solo di controlli esterni, ma soprattutto della capacità di far entrare questa cultura all’interno dell’azienda.
Una figura che si sta sempre più affermando nelle aziende è quella del Risk Manager, che raggruppa e rappresenta tutti questi aspetti presso il board ed è sempre più coinvolto nei processi di decisione strategica e nel lavoro di mappatura e interrelazione tra i vari rischi. Altro ruolo importante è quello dell’internal audit che verifica come vengono effettuati i controlli sia livello del management sia a livello del Risk Manager, portando i risultati in consiglio di amministrazione.
Per concludere, secondo me un percorso evolutivo nell’analisi dei rischi oggi dovrebbe passare attraverso alcuni punti fondamentali.

Prima di tutto vanno identificati i rischi prioritari per l’impresa, senza bisogno di effettuare una mappatura completa: è importantissimo portare al board una quantificazione e un monitoraggio dei principali top risk su cui lavorare mettendo a punto le azioni di mitigazione più importanti.
Un altro punto cruciale è integrare l’analisi dei rischi e delle opportunità nella definizione delle strategie e della pianificazione per poi implementare dei framework di “risk appetite”.
Tuttavia, senza strumenti informatici adeguati che ci aiutino a gestire questi aspetti, difficilmente si potrà avere una percezione puntuale del limite di rischio che andremo ad affrontare.
Infine, bisogna riuscire a diffondere una cultura risk based a tutti i livelli organizzativi. I framework sono molto importanti, ma sono gli stessi framework che definiscono ruoli e responsabilità: deve cioè esserci una cultura del rischio condivisa all’interno di tutta l’organizzazione.


CONCLUSIONI

NILS FAZZINI
Un dato che emerge da quanto detto finora è che nelle grandi organizzazioni nazionali, soprattutto nelle infrastrutture critiche, un approccio dinamico al rischio è già in essere o comunque in evoluzione. Il vero problema è porsi la domanda su come fare a traslare verso una base molto più ampia di PMI questo tipo di cultura, perché non sono escluse da un contesto di esposizione al rischio che tra l’altro riguarda tutti noi, soprattutto se parliamo di rischi ambientali, sociali o cibernetici.

ANDREA CHITTARO
Parlando di Cyber Security, spesso dimentichiamo che le PMI italiane detengono un know how straordinario e sono obiettivi appetibilissimi, come dimostrato da casi recenti. La cyber sicurezza deve trovare un approdo “culturale” più strutturato anche verso livelli apparentemente più bassi ma in realtà molto più pervasivi nel motore dell’economia.
In questo caso l’intervento di un professionista della sicurezza serve a capire che attraverso un’analisi puntuale, modellata sulla singola azienda e sulla sua identità, può aiutarla a proteggersi efficacemente senza grandi costi.

FEDERICO D’ANDREA
Per riportare il discorso all’azienda, non dobbiamo dimenticare che il compito dell’imprenditore è quello di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa. Noi da qui dobbiamo partire, ovvero sottolineare che il compito dell’imprenditore è quello di istituire una sana organizzazione: è ormai consolidato nella cultura italiana che l’obiettivo imprenditoriale vero non deve essere più esclusivamente la massimizzazione del profitto ma garantire la continuità dell’azienda nel tempo, passando dalla eliminazione di tutte le rischiosità che si oppongono alla continuità aziendale nel tempo.

PATRIZIA GIANGUALANO
Per ogni azienda la sfida per il futuro è proprio continuare ad esserci nel futuro: è per questo che abbiamo approfondito questi argomenti, perché dobbiamo cominciare a ragionare nel lungo termine analizzando gli scenari, identificando quali sono i rischi e cercando di intraprendere la strada più corretta nei modi e nei tempi.

 

Se ti sei perso l’evento e desideri rivederlo  CLICCA QUI